Giuseppe Scalzo

Calabrese, vive e lavora a Roma. Ha due grandi passioni: scrivere e dipingere. L’ultima luna (Baldini Castoldi Dalai, 2004) è il suo romanzo di esordio.

L’ultima luna – Baldini Castoldi Dalai
Semelia è un paese inventato e realistico, un luogo dell'anima e dell'immaginazione, nel cuore di una Calabria di antiche mitografie. A Semelia c'è una villa, centro pulsante di ogni trama che lega gli abitanti ai suoi proprietari, per tradizioni avite, per un misterioso sortilegio racchiuso da anni in una stanza la cui porta è per sempre serrata. In una notte, squassata da lampi e tuoni, Alessandro Corallo, il giovane padrone costruttore, amato e invidiato da tutti per la sua ricchezza e bellezza viene assassinato da uno sconosciuto, il corpo trovato riverso nella fontana della sua villa, mentre sua moglie Albertina, giace in casa legata, imbavagliata e violentata. C'è chi pensa a un delitto di stampo mafioso, chi a un forestiero capitato per caso a recidere una vita. È l'inizio di questo affascinante romanzo che ha la selenica levità di una ballata popolare e l'astuzia di un rebus classico, se l'autore non deviasse la storia verso altre inattese soluzioni, mentre, a capitoli alterni, ci racconta la vita dei Corallo padre e figlio e, al contempo, segue le indagini che si scontrano con l'omertà della gente o forse con la banalità del male e l'inderogabilità di un destino. Quello che sorprende in questa opera prima è la sua ingenua maturità, nel senso di servirsi di ogni presentimento a raccontarla, di languori e durezze nello scandirne i tempi. Scalzo ha un'innata capacità di appropriarsi di uno stile che echeggia e allude a varie tradizioni; a volte sembra imboccare la via del verismo, talaltra quella di una telepatica perturbante fantasia, o dell'apologo, per addivenire comunque a un felice risultato tutto suo: il piacere di narrare una storia come fosse un itinerario di cui non si conosca bene la fine.

L’incipit.
Il cielo era sconquassato da lampi e tuoni, e sembrava tremare come una vetrata appannata. Poi precipitò un temporale di fine ottobre particolarmente violento. Una tempesta d’acqua sul paese.
Sul casale in cima alla collina. Nella luce di una delle finestre basse si proiettarono improvvisamente due ombre, sembravano lottare, torcersi, luccicò un coltello. Poi lo schermo della finestra ritornò sgombro. Sulla porta apparve un uomo straordinariamente bello, con una maglietta azzurra. Trasognato, si teneva il ventre con una mano e il braccio.Respirò e gustò il temporale ancora un po’ salato, scese i gradini e, soave nella pioggia, si incamminò verso il viale. Il cane gli andò incontro, nonostante l’acqua. L’uomo con
la sinistra gli accarezzò il testone:“Polpetta, è finita. Vai dentro”. Il grosso pastore forse non capì le parole dell’uomo, ma capì il suo odore, e ritornò guaiolando nella cuccia. Lo continuò a seguire con gli occhi ululando un pianto. Non era stato mai granché come cane da guardia, gli era stato affidato un istinto consumato, e quel padrone che l’aveva allevato.
L’uomo si passò la sinistra sul pantalone, quasi a pulirla, e staccò una mela dall’albero. Diede un morso e assaporò lentamente.

Ha partecipato all'Edizione 2004